sabato 15 novembre 2008

La cultura del dolore

Nell’arco degli ultimi duemila anni. C’è stata un’organizzazione, una setta, che ha fatto della cultura del dolore il suo punto di forza per sottomettere alla propria fede milioni di persone che, probabilmente, ne avrebbero anche fatto a meno. Stiamo parlando, ovviamente, della società per azioni Chiesa SpA.
A partire dal simbolo con cui si identifica questa setta, un uomo morente su uno strumento di morte, e per stesse dichiarazioni elargite nel corso di due millenni, come ad esempio “gli ultimi saranno i primi” che vuol dire i poveri, i sofferenti, i malati saranno i primi ad entrare in paradiso. Che per me vuol dire: più soffrite più vi guadagnate l’accesso al paradiso.
Ecco quindi che la parola chiave con la quale si deve identificare la Chiesa SpA è dolore. Dolore perché se sei in una condizione pietosa non puoi che pregare il tuo dio per migliorare la tua situazione. Il dolore come mezzo per comunicare con un’entità che non si manifesta mai. Qualcuno potrà obiettare questa affermazione ma non mi sembra di aver visto nuove punizioni alla Sodoma e Gomorra nel frattempo. “Eh ma, il Signore ci ha beneficiato del libero arbitrio”. Ammazzati. Perché quando si fa qualcosa di buono è perché ci ha messo la zampino il Lord in questione e quando succede qualcosa di sbagliato si imputa la colpa all’imperfezione umana e al peccato originale? Perché, se realmente esiste, permette che si rovini il mondo sul quale viviamo massacrandoci a vicenda e estinguendo specie animali e vegetali (e ho qualche dubbi anche su quelle minerali)? La risposta è il libero arbitrio. La controrisposta la sapete già.
Il dolore, dicevamo, è quello che muove il potere spirituale e temporale della Chiesa. È normale, quindi, che vogliano mantenere il controllo su questi due poteri. Diventano perciò inaccettabili alcune scelte di vita, o meglio di morte, a seguito di condizioni non propriamente dignitose, come quella di Piergiorgio Welby e quella di Eluana Englaro. Scelte coraggiose, perché ci vuole molto più fegato a interrompere l’alimentazione (forzata) alla propria figlia invece che restare in un limbo che dura da quasi 17 anni. O forse proprio perché se sono passati così tanti diventa più facile farlo. Ma non per sé stessi. Per lei.
Di tutto questo il signor Englaro ha il mio più profondo rispetto.

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